LA CURVA SUD E LE BRIGATE GIALLOBLU

I PRIMORDI DEL TIFO ORGANIZZATO E L'ESPLOSIONE DEGLI ANNI '70

Sfidiamo chiunque a sostenere che, a prescindere dal posto occupato allo stadio, quando le squadre scendono in campo, riesce a non voltarsi verso la curva che si colora di gialloblu e intona la marcia trionfale dell'Aida in chiave veronese. Chi dice il contrario o è assolutamente in malafede, oppure gli consigliamo un buon medico se non riesce a capire che il vero spettacolo, spesso e volentieri, è sugli spalti e non sul campo. In effetti è questo il primo impatto per un neofita da stadio: la potenza espressiva, in termini visivi e sonori, di una muro umano che solo sugli spalti di un moderno anfiteatro trova il suo spazio vitale. Lo stadio è oggi, come lo è stato oltre 2000 anni fa, il luogo dove è concesso spogliarci dei nostri abiti borghesi, il luogo dove possiamo urlare e dare sfogo alla nostra tensione interiore, nonché stringere un patto di sangue con uno dei contendenti e subirne sulla nostra pelle la sorte.

E qui, lo diciamo senza troppi fronzoli, esce allo scoperto la prima, grande differenza, tra chi tifa per la squadra della propria città, in un vincolo inscindibile di identità territoriale, culturale e campanilista, e chi non trova di meglio che affidare le proprie insicurezze a qualche "squadra propaganda" - di solito in divisa a strisce verticali - con lo scopo evidente di lenire personali frustrazioni e complessi di inferiorità più o meno palesi. Il tifoso dell'Hellas (ma lo stesso discorso vale per tutte le cosiddette "provinciali") è consapevole che la sua fede non gli darà molte soddisfazioni sportive ma, d'altro canto, il suo attaccamento ai colori gialloblu è qualcosa di viscerale, una sorta di vocazione, di "chiamata", alla quale è impossibile resistere.

Il tifo gialloblu, a partire dall'inizio degli anni '70, è diventato un vero e proprio fenomeno sociale, capace di aggregare migliaia di giovani e non, nello spicchio del Bentegodi denominato " curva sud", termine che diventerà ben presto sinonimo di "Brigate Gialloblu" e che porterà il nome di Verona, a toccare ogni parte della penisola e anche in Europa, assumendo spesso i contorni di vere e proprie invasioni. Nel bene e nel male.

I gruppi ultrà, la trasformazione delle curve da anonimo settore di uno stadio a covo dei tifosi più viscerali, il coinvolgimento di migliaia di giovani e tutto ciò che fa del tifo da stadio un fenomeno sociale di primaria importanza, nasce a cavallo tra gli anni '60 e '70.

La Fossa dei Leoni, storico gruppo milanista, agli albori. Fonte www.fdl.it
Ma prima cosa c'era? La tradizione vuole che il primo gruppo di tifosi organizzati, in Italia, nasca nel lontano 1951 al seguito del Torino con il nome "fedelissimi Torino". Niente a che vedere con i moderni gruppi ultrà naturalmente. Sempre la tradizione (con una buona parte di leggenda) dice anche che il primo centro di coordinamento per i gruppi di tifosi, risalente ai primi anni '60, nasca in seno all'Inter in seguito ad una lamentela del mago Herrera nei confronti di Moratti: "Ma perché in trasferta non abbiamo mai tifosi?Eppure l'Inter è famosa in tutto il mondo." Così viene creato un organismo atto ad incentivare la crescita di club locali con lo scopo di portare alla squadra nerazzurra, in ogni stadio d'Italia, il calore del proprio tifo. Siamo ancora lontani dal prototipo del tifoso da curva ma "l' humus sociale" è ormai maturo: sul finire degli anni '60, in piena rivoluzione culturale, con folle oceaniche di giovani che invadono le piazze, spinti dal bisogno di aggregazione e accomunati dalla critica alla società borghese, lo stadio inizia a diventare una "zona franca" un luogo dove è possibile trasgredire alle regole più elementari della vita comune.

Notiamo come la parola "giovane", proprio in questo periodo assuma nel discorso comune valore di sostantivo oltre che quello tradizionale di aggettivo: il "giovane" diventa una categoria sociale. Di giovani l'Italia è piena, sono i figli del dopoguerra, del boom economico; il benessere permette a un numero sempre maggiore di questi giovani di allungare il tempo tra l'adolescenza e la maturità, permette di studiare e di crearsi alternative di vita sempre più varie: possibilità che le generazioni precedenti non avevano. Senza dilungarci sui motivi sociologici che hanno portato alla rivoluzione culturale degli anni '60, è funzionale al nostro discorso ricordare come la mentalità borghese fosse di fatto un ostacolo al desiderio di rinnovamento delle masse giovanili. Lo stadio diventa quindi una delle zone franche dove il "protocollo" può essere eluso, aggirato o, addirittura, del tutto calpestato.

Se alla base del tifo, fino a quel momento, c'erano stati soprattutto motivi campanilistici o puramente sportivi, in grembo alla nascita del movimento ultrà c'è soprattutto l'esigenza di stare uniti in gruppo, la necessità di riconoscersi in regole e valori comuni, il bisogno di costruirsi una "piccola patria" in cui riversare ideali che il formalismo strutturale della società dei consumi ha diluito, massificato, amoralizzato, strumentalizzato e, forse, cancellato.

I gradini che portano alla curva diventano una sorta di spogliatoio di abiti sociali: urlare, insultare e assumere atteggiamenti "poco diplomatici" non è eticamente sanzionabile. Il quotidiano rimane fuori dagli spalti come la cravatta e la tuta da lavoro. Allo stadio si può gettare la maschera, tirare fuori atteggiamenti e istinti che normalmente vanno controllati, misurati. Così gli stadi diventano il teatro di un mondo parallelo, dove si scrivono regole di convivenza particolare, dove lo spirito di gruppo e l' identificazione con la propria squadra prevalgono su tutto il resto. I colori della squadra di calcio diventano i colori distintivi del gruppo e il fatto sportivo, da oggetto primario di interesse (lo spettacolo per il quale si paga il biglietto e che giustifica la presenza in uno stadio) viene ridimensionato fino a diventare quasi un pretesto. È chiaro che la maggioranza degli individui che frequenta lo stadio, pur lasciandosi andare ad imprecazioni o a manifestazioni di gioia non proprio “da tutti i giorni” è comunque distante anni luce dalla mentalità del tifoso da curva, quello che viene identificato come "ultrà".

Splendida coreografia anni '70 della curva Sampdoriana. Fonte www.ultrastito.it
La parola ULTRÀ, entrata ormai nel linguaggio comune, risale alla rivoluzione francese, quando identificava la frangia più estremista dei rivoluzionari, quella, tanto per intenderci, che non aveva nessun problema ad usare la forza, ghigliottina compresa. Può quindi non essere una semplice coincidenza il fatto che i moderni "ultrà" siano nati nel bel mezzo di una nuova rivoluzione, quella che semplicisticamente viene chiamata il "68". Le curve, con il loro isolamento e nello stesso tempo la loro centralità, sono pertanto i settori dello stadio più consoni ad ospitare gli ultrà che vi si insedieranno trasformandole in uno spazio autogestito che in poco tempo diventerà ad uso esclusivo del gruppo ultrà. La scelta della curva non dipende solo dal fatto che si tratta di un settore a buon mercato: anche se la visuale è parziale, si trovano infatti in una zona nevralgica della partita: dietro le porte. Se pensiamo che il fenomeno ultrà nasce in Inghilterra, con qualche anno di anticipo rispetto all'Italia, e consideriamo che negli stadi inglesi le porte distano pochi metri dalle curve, è anche facile capire cosa vuol dire "giocare in casa" per le squadre d'oltremanica: il tifo delle curve diventa il cosiddetto "12° giocatore".
La palma, universalmente riconosciuta, di primo gruppo ultrà d'Italia va alla "Fossa dei Leoni" del Milan, nata proprio nel 1968, anche se i primi tifosi a fregiarsi del titolo di ultrà, sono i sampdoriani del gruppo "Tito Cucchiaroni", formatosi nel 1969. Seguono a distanza di pochi mesi i "Boys" dell'Inter e poi, nel giro di pochi anni, tutti gli altri gruppi al seguito delle maggiori squadre italiane (Bologna, Fiorentina, Genoa, Juventus, Napoli e, naturalmente, Verona). Negli anni '70 il fenomeno ultrà riguarda soprattutto il centro-nord, al sud solo piazze di rilievo come Napoli e Bari contano gruppi organizzati.

I primi ultrà italiani hanno caratteristiche piuttosto varie, ma in poco tempo le varie curve tenderanno ad omologarsi in un costante processo di imitazione ed emulazione che parte dai modelli inglesi. Anche se dagli inglesi vengono copiati e adattati i cori e viene introdotto l'uso della sciarpa, e dal Brasile arriva l'uso di tamburi e trombe, le curve italiane assumeranno i loro tratti originali mescolando a dovere i costumi "d'importazione" e l'italica fantasia in sfavillanti coreografie, addobbate con bandiere di ogni misura che si muovono nel fumo colorato, con corollario di fuochi artificiali, coriandoli etc.

Se la creazione di una valida alternativa per l'aggregazione giovanile e la possibilità di sviluppare una sorta di "forma artistica" (come di fatto sono le coreografie da stadio), sono lati decisamente positivi del fenomeno, gli scontri tra le tifoserie e con le forze dell'ordine costituiscono il rovescio della medaglia. I gruppi ultrà adottano nomi bellicosi: "fighters", "brigate", "commandos" e via dicendo che non lasciano molto spazio all'immaginazione. Nel mondo parallelo degli ultrà, amicizie e rivalità tra le tifoserie diventano un fattore essenziale e attorno alla sfida calcistica se ne gioca un'altra che, sempre più spesso, a partire dai primi anni '70, sfocia in vere e proprie risse. Regole non scritte dettano il vademecum per i rapporti tra le curve, sia che si tratti di amicizie (sancite sottoforma di gemellaggi) sia che si tratti di rivalità. Nell'Italia delle cento città e dei cento dialetti, risorge il campanilismo e le prime inimicizie tra le curve nascono proprio tra "vicini" di casa: per i veronesi ad esempio, Vicenza, Brescia e Mantova (come ai tempi dei comuni medievali) sono avversari naturali. Accanto alle rivalità territoriali, ci sono quelle politiche, soprattutto nel caso in cui il gruppo ultrà sia nato in seno ad organizzazioni estremiste. Il fatto saliente è che nei rapporti tra tifoserie l'andamento delle squadre assume una posizione assolutamente secondaria e il "rispetto" acquisito da un gruppo ultrà si misura in termini di adepti, di seguito in trasferta, di tratti distintivi nelle coreografie e nel "colore" del tifo e, purtroppo, anche in termini di vittorie ottenute nello scontro fisico con i tifosi avversari.

Problemi di ordine pubblico negli stadi ci sono sempre stati, ma con la nascita delle curve ultrà cambiano in "qualità" ed anche in "quantità": diminuiscono, fino quasi a scomparire dai campi di calcio professionistici, le invasioni di campo e la "caccia" ai giocatori e agli arbitri, ma aumentano gli scontri tra ultrà, coinvolgendo anche i dintorni dello stadio, le stazioni e, talvolta, interi quartieri. Del resto, tra i tratti caratteristici degli ultrà italiani, fin dai primordi, si riconoscono atteggiamenti e stilemi tipici dei "colleghi" inglesi (che in fatto di disordini e atti di vandalismo sono inarrivabili), ma anche delle bande giovanili americane: abbigliamento anticonvenzionale con tratti militareschi (anfibi, mimetiche, basco etc.) e segni distintivi della propria squadra (cappelli, sciarpe, distintivi), forte senso del gruppo con conseguente mentalità cameratesca, il tutto all'interno di un' organizzazione gerarchica che comprende capi e soldati semplici.

La coloratissima e stracolma curva della Fiorentina anni '70. Fonte www.tifonet.it
Dire che la curva è costituita esclusivamente da potenziali teppisti è comunque errato. Se mettiamo ad un estremo l'ultrà duro e puro (all' inizio poche decine) e all'altro il tifoso che la frequenta per sentirsi in gruppo e al massimo segue i cori e sventola la bandiera (la maggioranza), in mezzo possiamo riconoscere una percentuale di individui che all'occasione non disdegnano di muovere le mani (soprattutto in trasferta) ma che non fanno parte della "cupola" organizzativa. Lo stadio diventa il luogo dove l'aggressività, tenuta a bada dalle regole sociali, trova un nuovo spazio di coagulazione.

Eppure, attorno alle curve degli anni '70, l'aria che si respira e che coglie lo spettatore degli altri settori, è quella della festa, del colore, di quel 12° giocatore che cerca (e spesso riesce) a dare un contributo determinante alla propria squadra del cuore. Trasferte che sembrano esodi, fatte con treni e autobus che, alla domenica, fanno gli straordinari per i "pendolari del gol", cambiano la vita di un numero sempre maggiore di giovani italiani. Cambiano la società dal suo interno. E come tutti i cambiamenti, portano aspetti contradditori, difficili da decifrare anche a distanza di anni. Il dato comunque è certo: le curve degli stadi italiani si riempiono di ultrà nella prima metà degli anni '70, in un periodo in cui l'attacco allo stato da parte di gruppi estremisti (rossi e neri) è una realtà, in cui si contano i morti di una vera e propria guerra civile, vittime di stragi e attentati che scuotono costantemente l'opinione pubblica. In questo scenario gli scontri tra tifosi hanno un'eco limitata, a meno che l'entità dei danni (anche in termini di feriti o addirittura di vittime) non sia ingente o non vengano associati a motivi di matrice politica. In questo senso è evidente che i giovani ultrà, in più di qualche caso, sono gli stessi protagonisti della guerra di piazza di matrice politica e non sportiva.

Ogni curva ha una genesi propria e, spesso, i primi gruppi ultrà si proclamano infatti apolitici (come quello veronese), tuttavia la presenza (e l'influenza) di questi elementi esterni al tifo come espressione naturale, porteranno la maggioranza delle curve italiane ad avere nel tempo una connotazione ben precisa. Questo non significa che le curve diventino un crogiuolo di terroristi, ma la posizione politica dei diversi gruppi è, assieme alle rivalità campaniliste, uno dei motivi principali nella determinazione di amicizie, alleanze e rivalità tra tifoserie.

In questo quadro si inserisce la nascita delle Brigate Gialloblu, sancita ufficialmente il 30 novembre 1971.
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