Il
Bentegodi dei giorni normali, quello che sembra un alveare
abbandonato, docilmente adagiato tra giardini e condomini, mi ha
sempre fatto impressione. È raro che mi imbatta nel "tempio" al
di fuori delle giornate in cui gioca il Verona, quando è tutto un
brulicare di persone e di voci, e quindi non sono abituato a vedere
il viale che divide stadio ed antistadio talmente vuoto da sembrare
enorme. Mi sconcerta, sembra irreale, c'è talmente tanto posto che
non riesco a decidere come parcheggiare e mi giro un paio di volte
prima di fermare l'auto sotto uno dei pochi alberi, lato campo di
allenamento, di modo che resti all'ombra. Scendo e mentre
attraverso il viale la coda dell'occhio registra i bambini che
giocano all'antistadio e il cervello apre cassetti gonfi di
memoria. Gli occhi della mente si aprono sulla rete dietro la porta
del campo di allenamento, quando certe mattine dei tempi delle
superiori, più o meno trent'anni fa, ogni tanto, per necessità
connesse al poco studio del giorno prima, anziché scendere nella
stazione giusta proseguivo fino a Porta Nuova e poi andavo a vedere
gli allenamenti del Verona. Bagnoli lo ricordo bene che preparava il
campo con bastoni e "cinesini" mentre la squadra si riscaldava
correndo, lo ricordo prendere le casacche in panchina, distribuirle,
e poi parlare ai giocatori. Non si sentiva cosa diceva, ma lo si
vedeva gesticolare moltissimo, sempre con espressione seria,
concentrata. Non sembrava molto loquace l'Osvaldo, e gli
affezionati pensionati che andavano giornalmente agli allenamenti lo
sapevano bene: "L'è
n'omo educato e serio, el saluda tuti ma no'l parla con nissun".
In questa frase che ho sentito spesso all'epoca, c'è tutto il
rispetto dovuto alle persone autorevoli, quelle che hanno bisogno di
pochissime parole perché sanno parlare molto meglio con i fatti. Io,
ovviamente, non gli ho mai rivolto la parola. Più di una volta avrei
voluto avvicinarmi a fine allenamento quando attraversava, come sto
facendo io ora, questo viale, e porgergli il diario per un autografo,
ma avevo una sorta di timore reverenziale che mi frenava sempre,
anche perché in realtà avrei voluto chiedergli un milione di cose,
altro che l'autografo! Per me, che ho sempre amato gli antieroi,
lui era la figura che più si avvicinava al mio ideale, e potevo pure
fare l'eccezione di considerarlo a tutti gli effetti un eroe:
quello che trasformava i sogni in realtà. Ora, più o meno
trent'anni dopo, dietro la porta dell'Associazione ex calciatori
Hellas Verona, ad aspettarmi c'è proprio lui, l'Osvaldo, e io
sono qui proprio per fargli delle domande.
Nella
vita a volte bisogna solo aspettare.
Vado
avanti da solo, Matteo, che si è occupato di organizzare il
rendez-vous, arriverà di getto appena finito il lavoro. Chicco
Guidotti mi accoglie fuori dal cancello: "Il mister è già
arrivato, ti aspetta dentro".
Scendo
verso il campo del Bentegodi, sono all'altezza delle parterre. È
il tardo pomeriggio di mercoledì 17 maggio 2017, un sole imbolsito
da troppa umidità per la stagione irrora di luce una parte del
rettangolo verde dove ho visto il mio Verona vincere uno scudetto e
perdere in casa con la Sambonifacese. Potrei anche fermarmi qui a
scorrere ricordi su quello schermo di erba smeraldina. Ho il cuore
che freme e il sudorino impertinente e fastidioso tipico
dell'approccio ad un esame. Entro in sede e mi trovo davanti Sergio
Maddè, Nico Penzo e, un po' defilato, Osvaldo Bagnoli. Saluto
mentre Chicco mi presenta per quello che sono: un butel della
redazione di Hellastory. Dico anche qualcosa che fa sorridere Maddè,
ma non ricordo assolutamente cosa, poi, in pochi secondi, scompaiono
tutti e mi ritrovo a dare la mano all'Osvaldo che mi chiede se sono
il giornalista delle cinque e mezza.
Gli
dico di sì, ma in realtà, anche se ho un tesserino dell'Ordine
nel portafogli, non sono in veste di cronista ma in quella, ben più
impegnativa, di tifoso appassionato. Lui è disponibile a parlare di
tutto purché poi riporti fedelmente quello che mi dirà "perché" mi dice "capisco
che voi giornalisti state lavorando, ma non mi piace quando inventate
le cose, soprattutto non mi piacciono quelli che mi chiamano a casa
al telefono e pretendono di fare un'intervista di due parole e poi
il giorno dopo leggi sul giornale cose mai dette."
Ci
accomodiamo nell'angolo salotto della sede. Mi sono fatto un
promemoria con parecchie domande ma capisco subito che, se voglio
dare un senso a questa opportunità, devo impostare una
chiacchierata, togliere ogni rigidità e lasciare che prenda da sola
una direzione.
La
prima domanda, per rompere il ghiaccio, è di stretta attualità,
visto che l'incontro avviene alla vigilia dell'ultima partita di
campionato, con la promozione ancora in ballo: "Ce
la farà il Verona domani sera, a Cesena, a portare a casa la
promozione diretta?"
Scuote
un po' la testa e prima di rispondere fa una smorfia: "Se
consideriamo com'è andato il campionato, se guardiamo la
classifica, è chiaro che ce la dovremmo fare, ma il risultato non è
scontato anche perché ci sono altri interessi in ballo: è capitato
anche a me, in passato, di trovarmi in certe situazioni in cui si
parlava di "incentivi" a squadre già salve per giocarsela alla
morte. Non sono cose che si dovrebbero dire ma succedono. Non
aspettiamoci regali."
D
"Lei la imposterebbe sul pareggio, visto che manca solo un punto?
Che approccio avrebbe con una gara del genere?"
O
"Chiudersi è un rischio, bisogna andare convinti e giocarsela."
D
"Ha seguito il Verona in campionato? Cosa ne pensa di questa strana
stagione?"
O
"Ho visto quasi tutte le partite in casa. Quando si è insediata
questa dirigenza mi è stata offerta la tessera in tribuna, ho
ringraziato ma ho anche detto che senza mia moglie non sarei andato,
così ne hanno dato una anche a lei e veniamo allo stadio insieme.
Non mi era mai successo prima, è stato un riconoscimento molto
gradito. Il Verona era partito molto bene, poi ha avuto un periodo
negativo e nel finale si è ripreso ma continua a fare fatica, sabato
scorso con il Carpi il pareggio è arrivato alla fine, per questo
anche domani sera il risultato è tutt'altro che scontato."
D
"Quali sono secondo lei i motivi di questi alti e bassi?"
O
"La serie B è un campionato molto lungo e più si va avanti con la
stagione più le gare diventano difficili, c'è molto agonismo ed è
normale che ci siano momenti di appannamento, lo hanno avuto anche la
Spal e altre squadre."
D
"Quindi c'è stato un calo fisico, magari dovuto al gioco
particolarmente dispendioso che presuppone un pressing molto alto?
O
"Si, può essere, il calo fisico in un torneo così lungo è
fisiologico, per tutte le squadre, ma non solo quello, è anche un
discorso mentale."
D
"Non è che magari hanno pensato di aver già vinto il campionato
dopo l'ottimo inizio di stagione e poi alle prime vere difficoltà
non sono stati in grado di ritrovare lo spirito giusto?
O
"Non credo, sono cose che ho sempre sentito nel calcio, ma io non
ci credo, sono stato un giocatore e andavo in campo con il piacere di
giocare, sia che fossi in testa o in coda alla classifica me la
giocavo sempre e sono convinto che anche gli altri la pensano così."
D
"Pecchia le piace come allenatore?"
O
"Guardi, faccio fatica a risponderle perché ormai vedo le partite
con l'occhio del tifoso e non del tecnico. Sono distaccato e non
saprei nemmeno riconoscere i giocatori se li incontro per strada; mi
fa piacere andare e poi magari commento anche le prestazioni di
qualche giocatore e della squadra, spero sempre che il Verona faccia
bene perché sono stato giocatore, allenatore, a Verona ci vivo e
sono legato a questi colori, ma il calcio di oggi è troppo tattico e
spesso mi annoia. Tutti questi passaggi, spesso all'indietro, a
volte addirittura si fa giocare la palla al portiere, mi sembra tutta
una perdita di tempo. La prima cosa che insegnavo alle mie squadre è
che quando il portiere dà la palla al terzino, questo deve alzare
gli occhi e individuare il giocatore che si smarca davanti, lanciare
la palla mentre tutta la squadra deve salire. Tutti questi passaggi
che si fanno adesso mi annoiano."
D
"Eppure grandi squadre come ad esempio il Barcellona con questo
tipo di gioco hanno raccolto grandi risultati."
O
"Sì, ma non mi piace. Il possesso palla lo concepisco se sei in
vantaggio e alla fine vuoi risparmiare le forze, allora tiri avanti e
ti barcameni per far passare il tempo, ma se cerchi il risultato e
devi giocare per vincere io la vedo in modo diverso, bisogna cercare
sempre la verticalizzazione. Può darsi che ai tifosi di calcio di
adesso piaccia di più così, ma a me no."
Le
parole non rendono l'espressione dell'Osvaldo mentre mima il tiki
taka, è sconcertato al limite del disgusto, ma è anche chiaro che
il punto non è tanto l'estetica quanto l'efficacia. C'è un
solco profondo che non è solo sportivo tra il suo modo di intendere
il calcio dei suoi tempi e quello odierno: siamo di fronte ad uno
scarto generazionale vero e proprio, di portata anche sociologica.
Sono ragionamenti del tutto personali, sia chiaro, ma io vedo in
Bagnoli il classico uomo del dopoguerra, un figlio della generazione
che ha vissuto i disastri della guerra e poi l'entusiasmo della
ricostruzione senza però mai dimenticare le proprie radici. Una
generazione che conosce il valore del lavoro, conosce la fatica e
punta al risultato, senza troppi fronzoli perché la vita è dura e
l'importante è portare a casa la pagnotta, se poi ci si può
permettere qualche soddisfazione in più tanto di guadagnato. Il
"calcio all'italiana" non era forse questo? Talvolta piacevole,
raramente bello, ma sempre efficace. La mentalità adesso è
cambiata, già trent'anni fa si percepivano le avvisaglie di un
cambio epocale nella società e nel calcio, ma gli attori
appartenevano ancora alla generazione precedente e ne portavano a
maturazione i valori. L'espressione di Bagnoli nei confronti del
tiki taka è l'espressione di chi fatica a ritrovare nel calcio di
oggi l'essenza che lo aveva fatto innamorare di questo sport. O
quantomeno è quello che percepisco, e lo sento come un pensiero
molto vicino al mio. Per questo, dopo il doveroso passaggio sul
Verona di oggi, viene il momento di capire com'era invece il suo
Verona di ieri, non solo sotto l'aspetto tattico ovviamente.
D
"Il calcio di oggi quindi è troppo tattico, ma il rendimento di
una squadra dipende solo dal modulo?"
O
"Una squadra vincente è una squadra che ha i giocatori che
interpretano bene il loro ruolo in campo e sanno fare gruppo nello
spogliatoio. Con un gruppo unito si crea l'atteggiamento giusto: il
mio Verona affrontava ogni squadra senza timori, che si chiamasse
Juventus, Milan o Inter non cambiava nulla. Non ci arroccavamo in
difesa, cercavamo di giocarla ad armi pari: era questa la mentalità
che cercavo di trasmettere alla squadra. Giocarsela ovviamente non
vuol dire che si andava all'attacco spregiudicati, intendiamoci, ma
si affrontava l'avversario senza sentirci inferiori. Una questione
di mentalità, di fiducia nei propri mezzi."
D
"Il suo modulo di allora era la zona mista, una via di mezzo tra
l'assetto classico del catenaccio all'italiana e il gioco a zona
che iniziava a fare proseliti, soprattutto grazie ai successi della
Roma di Liedholm, lei non era uno sperimentalista ma il suo Verona
aveva comunque delle caratteristiche particolari."
O
"Avevo gli uomini giusti per fare quel modulo, con bravi marcatori
a uomo e giocatori tecnicamente molto dotati e anche intelligenti.
Tricella ad esempio era un libero che in fase di possesso palla si
trasformava in un centrocampista aggiunto e non c'era bisogno che
glielo spiegassi io, era lui che sapeva inserirsi negli spazi giusti
e partecipare all'azione, bravo ad uscire ma anche bravo a
ripiegare al momento opportuno. Poi contavo molto sul terzino
sinistro, il fluidificante lo chiamavano allora, da quella fascia in
genere facevamo partire l'azione, perché il marcatore di solito
era il terzino destro, ma nel caso si impostava anche da lì. L'anno
dopo lo scudetto, con la partenza di Marangon, si creò un problema
su quella fascia. Negli anni seguenti arrivarono altri buoni terzini
sinistri, come De Agostini e Volpecina, tornammo ad essere più
equilibrati.
D
"Oltre al modulo lo spogliatoio: il suo Verona anche sotto questo
aspetto fu un esempio di gruppo eccezionale."
O
"Sono fondamentali i giocatori che fanno spogliatoio, come Volpati,
che ho voluto a Verona dopo averlo allenato alla Solbiatese e al
Como, uno che tra l'altro poteva fare tutti i ruoli in difesa e a
centrocampo. Giocatori come lui creano quell'armonia che poi fa la
differenza, e nella squadra che ha vinto lo scudetto ce n'erano
almeno 5-6 con la personalità giusta per tenere unito lo
spogliatoio. Inoltre avevo una rosa di 15 giocatori, di cui 2-3
sapevano benissimo che il loro ruolo era quello di riserva, i
titolari quindi erano 12-13 e non si creavano attriti ed aspettative.
Si continua a dire che i risultati di quel Verona sono merito mio,
ma in realtà il merito è di un gruppo che andava d'accordo, non
solo per l'intelligenza e la professionalità dei giocatori ma
anche perché non avevamo una rosa come quelle di adesso, di 20 e più
giocatori con tanti che non giocano. Non fai gruppo con troppi
giocatori. Io da giocatore volevo essere titolare, sempre, ma al
Milan davanti avevo gente come Schiaffino, Bean e Liedholm, nel 1957
ho vinto lo scudetto con i rossoneri con 10 presenze, ma sono stato
più contento di fare il titolare a Verona l'anno dopo o nelle
altre provinciali dove ho giocato, perché io volevo giocare."
D
"Facendo un breve passo indietro e riportando la discussione sul
Verona di oggi, non pensa che forse, uno dei problemi di questa
squadra sia proprio lo spogliatoio, la mancanza di personalità di
riferimento? Insomma, non si vede nessuno che abbia le
caratteristiche di un Volpati."
O
"Questo non lo so, non conosco i giocatori, ma ripeto che più la
rosa è ampia e più è difficile fare gruppo, quindi è possibile
che ci sia stato qualche problema in questo senso."
D
"Torniamo al suo Verona. Lei spesso ha detto di aver capito che
avreste vinto lo scudetto dopo il pareggio con la Juve, ma veramente
non ci avevate mai pensato prima?"
O
"Siamo rimasti umili fino alla fine, ma da tempo sapevamo che
potevamo farcela a vincere il titolo. Avevo molta fiducia nella mia
squadra, eravamo uniti e determinati. Avevo i giocatori giusti al
posto giusto, una squadra perfetta, la migliore che ho allenato. Lo
ribadisco: il vero merito ce l'hanno i giocatori, professionisti
seri in campo e fuori."
Davide