Dei gol al «Mundial» di Spagna 1982 e del Pallone d'Oro, conquistato lo stesso anno, stanno parlando tutti e non saprei cosa aggiungere. Quel Paolo Rossi ribattezzato «Pablito» per le imprese in terra iberica è patrimonio della storia del calcio italiano e mondiale, sarei ridondante nel rivangarne i fasti.
Quindi la butto sul personale, perdonatemi, e mi concedo pure di accendere un riflettore sul Paolo Rossi di fine carriera, quello che con grande dignità venne ad indossare la maglia del Verona. Per capire quanto potessi essere felice di vederlo in gialloblù, è necessario comunque un piccolo passo indietro all'estate 1982. Ricordo quel mondiale con gli occhi di un dodicenne che, fino a quel momento, non era granché interessato al calcio, e che proprio l'impresa della nazionale di Bearzot, e quella del primo Verona di Bagnoli in serie A pochi mesi dopo, trasformarono in un grande appassionato. Ero magrissimo all'epoca (lo giuro!), veloce, pieno di fiato e nelle infinite partitelle tra amici che giocavamo a porta unica nella piazzola antistante la «Cesolina» di Brancon, o nel parchetto delle scuole elementari (dove l'enorme ippocastano faceva da stopper) la qualità che mi era riconosciuta era quella dei gol di rapina. Ero molto preciso nell'infilare la palla in mischia, su ribattuta del portiere, su indecisione del difensore, insomma tecnicamente niente di che, ma il fiuto del gol ce l'avevo. Per questo gli amici mi chiamavano «Rossi», come Pablito, e io ne andavo fiero. La mia carriera da calciatore peraltro non decollò mai e appena iniziai le scuole superiori il calcio lo seguii solo da tifoso. «Pablito» dopo il mondiale, pur essendo ancora giovane, imboccò il viale del tramonto. I segni di tanti infortuni e il ruolo di attaccante che, a quei tempi, significava prendere randellate senza troppi complimenti dal terzino di turno, lo avevano segnato fisicamente.
Quando, nell'estate del 1986, il Verona ne annunciò l'acquisto, i tifosi mugugnarono parecchio, non solo perché il «Pablito» del Mundial spagnolo era solo un ricordo, ma anche perché aveva vestito maglie a strisce poco apprezzate in terra scaligera: quella biancorossa del Vicenza, quella bianconera della Juve e quella rossonera del Milan. Io invece ero sinceramente felice. Potevo vedere il giocatore che mi aveva fatto innamorare del calcio indossare la maglia della mia squadra. A zittire i mugugni comunque ci pensò Osvaldo Bagnoli facendo capire che ci credeva sul serio: «é un giocatore di alto livello, un uomo squadra che può giocare in vari ruoli d'attacco, l'ho allenato da giovanissimo al Como e so che può diventare un valore aggiunto anche nello spogliatoio.» Se lo diceva Bagnoli nessuno aveva motivo di dubitare e, infatti, quel Verona, stagione 1986-'87, si classificò quarto in campionato con 36 punti all'attivo, secondo miglior risultato della storia dopo lo scudetto di due anni prima.
Rossi fin dal ritiro pre-campionato si dimostrò non solo un grande professionista, mettendosi a disposizione dell'allenatore e della squadra, ma anche persona di grande qualità, sempre equilibrato, rispettoso e, come aveva previsto Bagnoli, in grado di fare la sua parte anche nel tenere unito il gruppo. Lo ricordo particolarmente disponibile con i tifosi, sempre sorridente e positivo. In coppa Italia partì benissimo, segnando subito una doppietta al malcapitato Campobasso e un gol al Bari. In campionato però, soprattutto con l'inizio della brutta stagione, si trovò maggiormente in difficoltà pur dando sempre un buon contributo sia sotto l'aspetto tecnico che tattico. Giocò soprattutto da seconda punta accanto ad Elkjaer, ma spesso lo si vedeva retrocedere a centrocampo dove impostava il gioco, oppure correre sulla fascia, a fare l'ala.
Generoso ma fragile, Rossi alla fine della stagione si ritirò. Giocò comunque 20 gare segnando 4 reti, di cui 3 su rigore. Il 18 gennaio 1987, contro il Torino, tornò per una volta ad essere «Pablito», segnando il gol della vittoria, al minuto 87. Issandosi dal pantano incocciò perfettamente il pallone, di testa, infilandolo in rete. Uno stacco d'altri tempi, difficile per uno che aveva subito diverse operazioni a menischi e crociati, su un campo appiccicoso di neve sciolta e umidità padana, ma non si trattava solo di forza o di altezza, di arrivare più di alto di tutti, era soprattutto una questione di fiuto, di perfetto coordinamento tra il corpo e l'immaginazione, perché il campione vero ha la capacità di intuire, in una frazione di secondo, dove, e come, avverrà il contatto con la palla. Fiuto del gol, precisione, perfetta scelta di tempo e di spostamento in quello spazio, nel bel mezzo dell'area di rigore, dove aveva incantato il mondo. Certamente non il gol più bello, nemmeno il più famoso, anzi, ce lo ricordiamo solo noi tifosi veronesi di una certa età, ma a suo modo un gol storico: l'ultimo gol su azione di Paolo Rossi. Un gol alla «Pablito».
Grazie di tutto Paolo, anche del ricordo di una gioia che il tempo leviga fino a plasmarla in nostalgia: meglio il peso dei ricordi che l'anima vuota di chi non ha mai avuto passioni, eroi e storie, come quelle che hai scritte con i tuoi gol, da raccontare.
R.I.P.
Davide