Il prossimo 20 giugno, Dio volendo, ripartirà il campionato. Sarà un'esperienza completamente nuova, fatta di partite notturne giocate con cadenza bisettimanale, in stadi deserti e con pochi stimoli di classifica. A vederla così la immagino come uno di quegli amabili tornei estivi ai quali tutti noi abbiamo partecipato e in cui in ballo ci sono essenzialmente la birra fresca di fine gara e la voglia di divertirsi. Oltre agli immancabili sfottò reciproci, ai look imbarazzanti e alle patetiche sudate. Ma non credo proprio che i nostri giocatori la prenderanno in questo modo, divisi tra obblighi aziendali di portare a termine la stagione e il timore di nuovi infortuni e nuova positività. Ma che roba è?
Indubbiamente il Covid ci ha completamente scombussolato. Solo ora che stiamo riaprendo gradualmente alla vita precedente - con tutti i ma e i forse del caso - ci accorgiamo del profondo cambiamento che ha portato. Oltre a preoccupazioni e lacerazioni di varia natura. Questo perché il lungo isolamento ci ha realmente trasformati. Non possiamo nascondercelo.
Ed è per questo che mi chiedo se è davvero possibile che tutto possa tornare come prima. Lo vorremmo davvero, ma la frantumazione è stata devastante. Anche ricomponendo pezzetto dopo pezzetto il puzzle finale di noi stessi, alla fine risulterà deformato. Che futuro ci dobbiamo aspettare? Possiamo prenderla alla larga, con il pessimismo della ragione oppure d'impatto, con l'ottimismo dell'incoscienza. La stessa che tenne aperta la Lombardia fino a metà marzo e finì come sappiamo o che nega ogni evidenza, sofferenza compresa, semplicemente perché è toccata ad altri. Ecco dunque come siamo messi, a cominciare da noi stessi non siamo più nemmeno in grado di fare previsioni a medio termine: il lavoro, la ripresa regolare delle nostre relazioni (oggi mascherate di tela o in videochat), persino le vacanze. In mezzo ci sono uffici svuotati dallo smart working, attività perse, code fuori dai negozi, febbre misurata ad ogni ingresso, tempo a nostra disposizione dilatato ma anche svuotato della sua componente emotiva. Tutti profumatamente gel-igienizzati.
E poi c'è il calcio, il nostro amato calcio. Vietati gli assembramenti, fino a decreto contrario, non ci rimane che la televisione. Passiamo insomma da una partecipazione collettiva ad una individuale, quasi spirituale. Sentiremo essenzialmente i tocchi ravvicinati del pallone e le urla dei giocatori in campo. Ma temo che l'intensità di un' Hellas - Juventus non si potrà ripetere in queste condizioni. Forse perché è ancora troppo recente la memoria della desolante trasferta di Genova con la Sampdoria, in uno stadio vuoto e contro un avversario più motivato.
Parliamoci chiaro, non sono assolutamente contrario alla ripresa del campionato. Anzi. Dobbiamo sforzarci a tutti i costi di ritrovare la normalità. Il problema è che non riusciamo ancora a definire i nuovi parametri di normalità. Del resto, non possiamo mica cancellare gli sport di squadra e di contatto nella speranza e nei tempi del vaccino. In giro, già si vedono partitelle tra amici e allenamenti più o meno legittimi. Ed è anche per questo che, nell'euforia dei preparativi, si sta montando sempre più la riproposizione della vecchia versione di normalità, quella che ha portato Gravina ad augurarsi di riaprire gli stadi già in estate. Magari! Distanziati però, tutti mascherati, vietati abbracci e spintoni. Quante ore ci vorranno per entrare allo stadio? Vallo a spiegare che i 37,6° sono conseguenza di una sana tensione prepartita e non di declamato Coronavirus. Il tutto in attesa dell'autunno, una specie di strapiombo.
Al di là delle speranze e degli auguri, bisognerebbe cercare di capire se Covid stia tentando anche di cambiarci la prospettiva delle cose: vuoi il calcio? Allora gioca! Vuoi invece l'Hellas? Allora guardalo alla televisione. Il campionato trasformato in una serie tv. Che poi, a pensarci bene, potrebbe addirittura aiutare a dare un senso meno esasperato al concetto di tifo. Ma se così non fosse? Se cioè, al contrario, mesi di opprimente isolamento e di incertezza inducessero ad un'aggressività e rabbia interiore che non riusciamo a controllare? Con l'antagonismo sportivo, gli errori arbitrali e quelli tecnici puri pretesti. Saremo colti da atarassia o esasperazione? Saremo ancora in grado di soffrire, arrabbiarci, urlare ed esultare come prima? Oppure, costretti dal vuoto intorno a noi e dall'assenza di coinvolgimento diretto, subentrerà la consuetudine come se assistessimo a poco più di partitelle di allenamento? Che sapore ci lascerà una nuova vittoria? E le prossime sconfitte verranno tutte ridimensionate emotivamente come è accaduto a Genova? Come è possibile indurre alla gioia se non si accetta anche la delusione?
Vorrei poter cancellare ogni momento di questo brutto spettacolo al quale abbiamo assistito e ripartire come se nulla sia successo. Ma è impossibile. Ed è per questo che oggi sono un'altra persona. Tutti noi siamo diventati altre persone. Più o meno, come se fossimo andati sulla Luna - o forse, meglio, scesi in Inferno - e tornati a casa con le mani gonfie, i piedi feriti e parecchi incubi da elaborare. L'unica certezza che ho è che, al momento opportuno, la fatica che stiamo facendo a cercare di essere normali ci porterà a rispondere ciascuno in maniera differente. E già questo, da solo, mi fa sentire più vecchio.
Massimo
Colonna sonora: The Amputees, dei fantastici Tindersticks
Foto ufficio stampa Hellas Verona