L'ultimo film di Woody Allen inizia con la seguente affermazione: “E' meglio essere fortunati che avere talento”. Questo principio ispirerà in maniera ossessiva tutto il racconto arrivando a riproporre più volte sia il quesito che la risposta. Del resto, l'autore stesso fa della Fortuna un'astrazione classista, una dimensione sociale. In questo mondo ci sono persone che nascono fortunate (Tom e Chloe), totalmente occupate a riempire una vita vuota con il proprio benessere, evitando ogni genere di preoccupazioni, noiosamente squallide. Poi ci sono persone meravigliosamente sfortunate (Nola), destinate a soccombere sul più bello. Infine ci sono persone dotate di talento, come il protagonista, proiettate verso un successo duraturo o effimero a seconda del Caso. Da qui nasce l'inghippo.
Chris Wilton è un ex tennista di talento, un ex maestro (di tennis) per sopravvivenza, infine un manager di successo. La sua crescita sociale, assolutamente verticale, è stata resa ancora più repentina da una capacità innata verso il business e da una feroce voglia di arrivare. Ma quando un errore, o un semplice momento di debolezza, rischiano di mettere in discussione tutto ciò che ha conquistato, perde il suo equilibrio e decide di salvare la nuova posizione con un duplice delitto. La precarietà fa paura. A questo punto sarà la Fortuna a decidere se porre fine a tutto questo talento o meno: Allen lascia aperto il finale della storia, ma chiude molto bene tutte le circostanze realizzative rimettendosi al giudizio (morale) dello spettatore.
Per l'occasione, il maestro sostituisce Manhattan con una superlativa Londra primaverile - degna estensione estetica, culturale e finanziaria - e il Jazz con l'Opera classica (recuperando le più celebri romanze della Traviata, Rigoletto, Otello, Trovatore, Elisir d'Amore, Macbeth) che ripropone ossessivamente in ogni circostanza possibile. Poiché qui c'è un dramma da rappresentare, questo genere musicale ha il merito di amplificare ogni contenuto dalla passione alla gelosia, dalla sofferenza alla vanità, dalla la morte al successo.
Non sono in grado di capire se questo sia uno dei più bei film che ha fatto, come alcuni sostengono. Allen o si ama o no: tutto dipende da quanto riusciamo a entrare in sintonia con la sua nevrosi e la sua sensibilità. Però l'autore ha sicuramente il merito di proporci sfacciate visioni del nostro animo, questo non possiamo certo negarglielo.
Che rapporto esiste tra la Fortuna e il Talento? Quale dei due è più importante? A quale non possiamo fare a meno?
A mio avviso la Fortuna in sé non serve a niente. E' un'alleata inaffidabile e scostante. Se l'abbiamo addosso, dentro di noi, non ce ne rendiamo assolutamente conto (la spensierata alta borghesia londinese); quando invece la troviamo per un attimo, non possiamo trattenerla, ci sfugge via. E' la fortuna del parcheggio sotto casa o quello della metropolitana di Sliding Doors: in nessun caso riuscirà a cambiare la nostra vita.
Il Talento invece è tutto. E' l'unica cosa che ci fa saltare l'ostacolo, che ci differenzia dagli altri, che ci giustifica in qualche modo, che ci fa riconoscere. Senza talento, non siamo nulla e vegetiamo nella mediocrità. Anche se siamo fortunati e ricchi, non valiamo niente. E la cosa brutta è che i primi a rendercene conto siamo proprio noi stessi così annoiati, insicuri, sempre alla ricerca di una risposta che ci riguardi. L'importante è riconoscere il nostro talento.
Il problema del protagonista del film è che lui vorrebbe abbinare al suo Talento naturale anche la Fortuna. Ecco perché si lamenta dall'inizio alla fine dell'importanza di un centimetro nel lancio di una palla da tennis che finisce da una parte o dall'altra della rete, modificando l'esito dell'incontro. Oppure, del ritrovamento o meno – anche qui solo per questione di un centimetro - della prova decisiva che lo inchioderebbe o meno al suo destino (e alle sue responsabilità) di omicida.
Ma mi domando: una singola partita vale tutta una carriera? L'esistenza di due esseri umani vale una vita piena di favori, soldi e potere?
Ognuno si dia la propria risposta: Allen ci propone l'argomento, ponendoci impietosamente davanti a noi stessi; Chris esprime il tormento della sua ambizione; Faust e Dorian Gray - altrove - la loro caduta per essersi spinti troppo in là; ciascuno di noi, quotidianamente, trova le sue soluzioni. Per poi smentirsi subito dopo e ricominciare a rodersi sui forse e i perché della propria incompletezza.
Ma questa è la vita, con le occasioni che offre e i suoi rifiuti. Il loro prezzo da pagare. Meglio quindi avere dentro di noi la capacità di prezzare un po' il nostro valore, che la speranza che giri nel modo che ci fa più comodo. Non vi pare?
Massimo
NOTA A differenza del film, la musica che abbino non ha niente a che vedere con drammoni liturgici operistici, né con assoli autocelebrativi di grandi interpreti.
Thelonious Monk è un principe del pianoforte. Eppure lo conoscono in pochi. Sarà per colpa della maniera in cui affrontava la tastiera, martoriandola con penosa ossessione, oppure per il modo primitivo in cui esprimeva alcune sue canzoni.
Un giorno un amico mi ha fatto ascoltare uno dei più celebri brani di Duke Ellington, “Sophisticated lady” chiedendomi se riconoscevo l'esecutore. La sfida era intrigante ma, con il passare delle note, mi sono perso sempre più dietro alla musica e meno alla scommessa: nessuna rarefazione, nessun compiacimento; solo un commovente ritratto della donna dei nostri sogni, una dichiarazione d'amore. Ovviamente non ho indovinato. Solo quando, sospettoso, ho verificato il miracolo mi sono ricordato che Monk è stato anche l'autore di Round Midnight e Ruby, my dear. Anche gli orsi hanno una loro forma di poesia, e quando esce fuori è molto più magica di quella delle farfalle.
Per chi fosse interessato, l'esecuzione a cui ho fatto riferimento è quella del luglio 1955 a Hackensack, New Jersey con Oscar Pettiford al contrabbasso e Kenny Clarke alla batteria. Talento e Fortuna insieme.