IL COMMENTO DI ROBERTO PULIERO ALLA STAGIONE 1983-84

Tratto da "Alè alè alè bum bum"

In Europa ovunque Hellas

(1983-84)

Un dubbio amletico tormentò i tifosi gialloblù all'inizio dell'estate 1983, echeggiando senza soste tra bar, ritrovi e calcio club: Dirceu va o resta?

Il brillante campionato del Verona e le belle prestazioni del brasiliano avevano attirato sul suo cartellino l'attenzione di molte squadre. Josè sarebbe rimasto volentieri a Verona, le cui mura antiche erano state addirittura tappezzate di centinaia di manifesti invocanti la sua permanenza in gialloblù. Le numerose offerte avevano però fatto notevolmente lievitare il prezzo del suo ingaggio, e i dirigenti del Verona erano orientati a non confermarlo. Ma come avrebbero potuto dirlo alla piazza, ormai pullulante di "amigos"?

Essi contattarono allora i giornalisti "amici", quelli che la lunga consuetudine filogovernativa delle testate in cui militavano aveva ormai abitualmente indotto, anche nelle pagine sportive, ad un atteggiamento sempre acritico e ossequioso verso chiunque detenesse un potere.

Quando perciò Dirceu, come avrebbe fatto qualunque professionista, decise di accettare le principesche offerte del Napoli, partì immediatamente, in particolare su "L'Arena", una campagna di stampa di inaudita insistenza volta ad additarlo al disprezzo delle folle quale traditore e mercenario. Molte pagine estive del quotidiano cittadino furono dedicate a rievocare con protervia e acidità le mille dichiarazioni d'amicizia di Josè ai suoi tifosi, inventando per Verona l'immagine grottesca di una fanciulla cinicamente tradita, sedotta e abbandonata da un avventuriero senza scrupoli.

Molti tifosi, soprattutto quelli abituati a vantare totale indipendenza dalla stampa o da chicchessia, abboccarono all'inganno così rozzamente predisposto. Quando alla nona giornata Dirceu si presentò al Bentegodi con la maglia del Napoli, lo stadio lo accolse ribollente di fischi e urla di scherno, e pavesato di striscioni irridenti tra i quali campeggiava un "Dirceu, amìgo dìghelo a to pare".

Josè, che nelle dichiarazioni della vigilia aveva ribadito comunque il suo affetto alla città, esprimendo il desiderio di salutare i suoi vecchi tifosi benché gli avessero voltato le spalle, si comportò ancora una volta da signore. Incurante dei mille insulti assurdi che gli piovevano dagli spalti, tempestato da fischi e improperi, tranquillo e deciso egli si diresse corricchiando incontro alla curva affrontando a viso aperto, come per un dovere irrinunciabile, proprio il boato che lo aggrediva con sempre maggiore veemenza.

Ai lazzi degli smemorati e degli ingenui, egli oppose un lungo saluto a mani alzate che suscitò ulteriore rispetto e ammirazione in chi le sue foto non aveva ancora nascoste nel cassetto più remoto. In campo poi, quando il suo nuovo compagno Bruscolotti segnò verso la fine il gol del pareggio napoletano, egli evitò di partecipare com'era solito all'esultanza gioiosa dei compagni, quasi a rispettare la tristezza dei suoi vecchi tifosi.

Ora il vecchio "amigo" è arrivato prematuramente all'ultimo trasferimento; senza essere un campionissimo, ha certamente saputo comunicare la sua voglia saggia di affrontare il calcio come un gioco da vivere fantasiosamente con fanciullesca allegria. Se là dove ora riposa è ancora lecito giocare, non v'è dubbio che sia riuscito a strappare un nuovo ingaggio anche a San Pietro.

Nella stessa estate erano partiti in cerca di maggior gloria anche Penzo (Juventus), Spinosi (Milan) e Oddi (Roma), ma i dirigenti seppero sostituirli in modo adeguato, potendo ancora contare sulla straordinaria capacità di Bagnoli di far emergere comunque il massimo dalle doti di ciascuno.

Al posto di Oddi e Spinosi arrivarono Ferroni e Fontolan, l'uno marcatore tempista e assiduo, l'altro stopper autoritario di svettanti qualità atletiche, accompagnate da una grande carica di umanità fuori campo e di autorevolezza nello spogliatoio.

Per sostituire Penzo venne ingaggiato Joe Jordan, trentaduenne scozzese soprannominato "lo squalo". Era privo dei due denti davanti, che sostituiva con una protesi. L'aspetto abituale era quello tipico del gentleman britannico, ma quando entrava in campo toglieva i denti finti lasciando un impressionante buco centrale fra i due incisivi che sporgevano aguzzi. Generoso combattente di modeste doti tecniche, perse quasi subito il posto di titolare, ma tutti i suoi compagni di allora lo ricordano con ammirazione ed affetto per l'impeccabile serietà professionale e la grande simpatia, soprattutto manifestata nel corso di amichevoli bevute di birra.

I ruoli delle due punte vennero spavaldamente assunti da due nuovi sbarbatelli ricchi di doti e di belle speranze: Maurizio lorio e Nanu Galderisi. il primo, arrivato in prestito dalla Roma, aveva fisico esile ma grande rapidità in zona gol. il secondo, appena diciannovenne, aveva già stupito gli osservatori ritagliandosi qualche spazio nella Juve dei grandi con guizzi da campione. Era piccolo da far tenerezza, ma coraggioso come un kamikaze, furbo, opportunista e capace d'uno scatto breve stordente.

Garella, Tricella, Marangon, Volpati, Di Gennaro, Fanna, Sacchetti costituivano ancora l'ossatura portante della squadra, nei cui sempre ben registrati meccanismi tutti i nuovi si inserirono con prontezza.

Fin dalle prime partite, i gialloblù si mostrarono nuovamente in grado di competere alla pari con tutte le grandi, inserendosi subito nelle prime posizioni della classifica. Ma la grande attesa dei tifosi era rivolta soprattutto allo storico debutto in Europa: lo stato d'animo, misto di trepidazione e di orgoglio, era quello del contadino invitato a corte dal re.

A metà settembre, per accogliere al primo turno casalingo gli ospiti illustri della Stella Rossa di Belgrado, il Bentegodi si mise il vestito della festa, e subito lo stropicciò nell'esultanza per il gol su rigore di Pierino Fanna che decise la partita.

La gara di ritorno appariva paurosamente difficile. Migliaia di veronesi, con i mezzi più disparati, accompagnarono la squadra a Belgrado, scoprendo una città che pareva uscita da un film italiano degli anni cinquanta, con i quarti di bue appesi fuori dalle macellerie vuote, e i giocattolini di latta nelle vetrine di minuscoli negozi.

Lo stadio della Stella Rossa, ribattezzato "Maracanà" per il tifo infernale dei suoi sostenitori, era infossato in una buca tra le colline, dove gli avversari dei padroni di casa, accerchiati da tanto clamore, finivano in genere sopraffatti. Radio Adige debuttava in Europa grazie ad una linea internazionale appositamente installata.

Dopo solo un quarto d'ora gli slavi annullarono lo svantaggio dell'andata andando a segno su rigore. Il boato dello stadio si fece spaventoso.

Non tremarono i ragazzi di Bagnoli, che ripresero a ordire con precisione le loro ben congegnate controffensive. Poco dopo la mezzora, Gigi Sacchetti esplose dal limite una staffilata improvvisa, che andò a infilarsi imprendibile sotto l'incrocio: 1-1.

I padroni di casa si rituffarono all'assalto schiumanti di rabbia. All'inizio della ripresa riagguantarono il vantaggio, e subito s'avventarono con veemenza alla ricerca del gol della qualificazione. Fu allora che, come il puffetto buono delle favole, fece capolino nella bolgia Nanu Galderisi, inventando d'incanto due magici guizzi che nuovamente ribaltarono il punteggio: 3-2!

Proprio come nelle favole, giocatori e tifosi vissero felici e contenti lo storico momento di ineffabile gioia: al suo primo tentativo, il Verona aveva trionfato in Europa. L'esultanza si mescolava all'incredulità e alla commozione.

Fuori dagli spogliatoi, decine di tifosi aspettarono i giocatori. Nanu Galderisi si tuffò festante in mezzo a loro, che più volte lo lanciarono verso il cielo, donde forse era venuto.

lo salii sul pullman della squadra che ci riportava in albergo. Tricella, Volpati, Di Gennaro, capi carismatici dello spogliatoio, si guardavano in faccia gioiosamente stupiti e si dicevano: "Ma allora siamo proprio forti".

Impercettibili pieghe ai lati della bocca, forse significanti un sorriso, furono individuate persino sul volto di Bagnoli. In albergo ci aspettava fumante il risotto al tastasal confezionato da Billy Pattaro, cuoco della bassa appositamente aggregato alla trasferta per stemperare la tensione col calore dei profumi di casa.

Il Verona si rituffò nel campionato sempre più consapevole delle proprie possibilità. Si ritrovò così al secondo posto in classifica alla vigilia del nuovo appuntamento di Coppa, a fine ottobre contro lo Sturm Graz.

La partita d'andata al Bentegodi si concluse con un rocambolesco 2-2, che rendeva problematica la qualificazione agli ottavi: ma la consistenza della squadra gialloblù consentiva non vane speranze.

I primi giorni di novembre, in occasione della partita di ritorno, le pittoresche stradine di Graz vennero invase da migliaia di veronesi ricchi di fiducia e di allegria. Ci si riconosceva e ci si abbracciava per la strada fra gioiose mescolanze di birra e bardolino, wiirstel e soppresse, jawohl e chetàcunà.

Nel piccolo stadio, dopo aver gracchiato vari proclami in tedesco dal sapore vagamente inquietante, l'altoparlante si cimentò con la lingua italiana. "Et ova, una cantzona pev salutave gli amici spovtifi fevonesi!": "Iàmme, iàmme, iàmme iàmme ià...". L'incauta scelta musicale fu accolta da una valanga di fischi.

Per evitare intemperanze eccessive da parte della tifoseria gialloblù, l'implacabile polizia austriaca prese cinicamente di mira i veronesi assiepati in curva e li bersagliò con gli idranti.

lo fui mandato a trasmettere da bordo campo. Avevo un tavolino nei pressi della linea mediana; attaccata alle mie spalle, una leggera rete metallica mi separava dai tifosi locali vocianti. Tra la mia postazione e la linea laterale, passavano a intervalli regolari i poliziotti di casa, trainando mostruosi cani lupo.

Quando mi passavano davanti, quei furbacchioni alle mie spalle, misteriosamente a conoscenza del mio fanciullesco terrore, all'unisono prendevano ad abbaiare verso i mostri, che rispondevano al loro indirizzo digrignando i denti bavosi e schiumando rabbia con furiosi latrati. Col mio microfonino incollato alla bocca tremante, io ero giusto tra l'incudine dei cani e il martello dei tifosi, costretto a raccontare col cuore in gola e finta noncuranza gli assalti gialloblù alla porta dello Sturm.

Il Verona purtroppo non riuscì nell'intento, e fu costretto ad uscire dalla competizione internazionale con la consolazione di andarsene comunque imbattuto, e la speranza segreta di ritentare, un giorno, la meravigliosa avventura.

il campionato d'altro canto proseguì subito con buoni risultati. Un doloroso infortunio a Sacchetti consentì di verificare ancora una volta la singolare attitudine di Bagnoli a imitare Re Mida, quello che trasformava in oro qualunque cosa toccasse: il posto dello sfortunato Sacchetti venne tranquillamente affidato a Massimo Storgato, che lo occupò con grande disinvoltura e sicurezza, toccando da centrocampista vertici di rendimento poi mai più raggiunti nella sua modesta carriera di stopper.

La tranquilla saggezza di Bagnoli era in ogni frangente il timone sicuro cui affidarsi per proseguire il cammino con rasserenante equilibrio. Lo ricordo davanti agli spogliatoi dopo una entusiasmante vittoria al Bentegodi contro la Roma campione d'Italia (1-0, gol di Di Gennaro), in attesa delle interviste dei giornalisti: egli era così imperturbabile nel suo aspetto compunto che quando anche il grande Liedholm, l'allenatore sconfitto, fu nei paraggi, questi non poté fare a meno di battergli una mano sulla spalla e di sussurrargli sorridente con fare consolatorio: "Coraggio, coraggio..." Era per me sempre più coinvolgente raccontare ogni domenica tanti progressi e tante speranze. La mia identificazione con la squadra era sempre più forte, accentuata quell'anno dall'invenzione dei miei personaggi televisivi. Con l'intento di portare un po' di sdrammatizzante ironia anche nel racconto delle vicende calcistiche, erano nati Elvis Ciurla tifoso della curva, con la sua tenera minaccia "'A che te dào", Gedeone tifoso di Bovolone, che fingendo d'incontrarmi esclamava "EI me fa morir", Gustavo Lapearà tifoso della Bra, coi suoi ricordi del "fùbal" d'altri tempi.

Anche quell'anno dovetti affrontare la trasferta di Pisa. Ma il proprietario del solito balcone era misteriosamente scomparso: gli amici di Radio Pisa non ne avevano più notizie, né erano più riusciti a rintracciarlo. Forse le deliziose pastine annualmente portate dalle tre vecchiette sue ospiti contenevano una piccolissima dose di veleno, alla lunga letale? Erano esse forse una trasposizione toscana di "Arsenico e vecchi merletti"? Mistero. Fatto sta che dovemmo studiare un nuovo stratagemma: individuammo un nuovo settore dello stadio, lontano dalla tribuna centrale, dove avrei potuto sistemarmi per trasmettere; per rafforzare la potenza del "baracchino", collegato con la casa d'un nuovo radio amatore, bisognava portare allo stadio anche due pesanti batterie. Sapevamo tuttavia che i controlli all'ingresso sarebbero stati rigorosi.

Pensammo allora di avvolgere walkie-talkie e batterie in sgargiante carta colorata, confezionando tre pacchi regalo con tanto di fiocchi fiocchetti e ornamenti. Allo stadio mi avrebbe accompagnato mia moglie Kety. Alibi convenuto per rispondere ad eventuali domande: si trattava di tre regali per i nostri cari parenti pisani, in vista dell'imminente Natale. Pensai che, confusi nella borsa di mia moglie, i "regali" certamente avrebbero dato meno nell'occhio e, benché tutti e tre insieme fossero pesantissimi, la pregai di tenerli in borsa fingendo disinvoltura fino a che non avessimo superato lo sbarramento d'ingresso.

Ci presentammo insieme al controllo, lei trepidante come una bimba che va a rubare la Nutella, io certissimo della bontà del nostro piano.

Tra un giovinastro con giubbotto di jeans, scarpe da tennis, capelli lunghi, e una giovane signora sobriamente elegante, chi potrebbe scegliere di fermare per un controllo - pensavo - il poliziotto di turno?

Come avviene regolarmente in tutti gli stadi dove poi si verificano episodi di violenza, il controllore lasciò passare me con un cortese saluto e bloccò impavido l'inerme signora. "Apra la borsa".

Kety eseguì meccanicamente, il segugio palpò i pacchi dono. "E questi cosa sono?"

Ella ammutolì confusa, balbettando qualcosa. "Cosa sono!?" replicò quello, impaziente.

Ancora silenzio. La fila degli spettatori in coda premeva per entrare, qualcuno brontolava a voce alta.

"Va beh, senta... vada, vada!" sbuffò sconcertato il cerbero, pensando d'aver a che fare con un'imbranata.

Ancora una volta il brivido del complotto fu compensato dalla gioia per l'evento sportivo: con due splendidi gol di Fanna e un guizzo di lorio, il Verona travolse per 3-0 le truppe sfilacciate di Anconetani.

Ben più preoccupante fu il pericolo che dovetti affrontare, quell'anno, al Cibali di Catania, dove il Verona vinse per 1-0 grazie ad un gol malandrino di lorio, che prima di scoccare il tiro vincente, a pochi minuti dal termine, si era forse furbescamente appoggiato allo stopper avversario.

Il pubblico di casa, già esasperato da precedenti presunti torti e soprattutto dalla rabbia per la rovinosa caduta dei suoi beniamini, prese d'assedio gli spogliatoi minacciando di mandare al rogo l'arbitro e i suoi complici.

La polizia respinse con la forza gli assedianti che, sempre più inferociti, occuparono il piazzale antistante lo stadio dando fuoco ai cassonetti e spingendoli contro il cancello d'ingresso. Si sentivano scoppi, urla, sirene spiegate; volavano fumogeni nell'aria maleodorante di zolfo.

Bloccato all'interno degli spogliatoi, rischiavo di perdere l'aereo per tornare a casa in serata.

Nel cortiletto adiacente, protetti da un grande cancello di ferro, tre tassisti erano in attesa di condurre via arbitro e guardalinee, non mancando d'imprecare fra i denti all'indirizzo dei loro ormai prossimi clienti. Corsi da uno di loro e, qualificandomi quale giornalista settentrionale ma neutrale, lo pregai di condurmi all'aeroporto. La sua iniziale incertezza si risolse alla promessa di una mancia robusta. Mi fece salire, balzò in sella al suo taxi e fece aprire il cancello: mezza piazza era vuota, presidiata dalle forze dell'ordine in armi. Sul fondo, tra le fiamme dei cassonetti incendiati, si intravedeva la folla vociante dei rivoltosi. Il pazzo alla guida puntò direttamente verso di loro come a travolgerli; poi, una volta arrivato a pochi metri dal branco, continuando a guidare con la sola mano destra, si protrasse con tutto il busto fuori dal finestrino e, agitando la mano sinistra, prese a gridare: "Non è iddu l'abbitro! Non è iddu l'abbitro!"

I malintenzionati, che già mi stavano scrutando con odio, si scansarono di scatto non senza sospetti, lasciando passare il bolide che volava via accarezzando le loro braccia protese.

Una volta arrivato all'aeroporto col cuore ancora in gola, captai l'amichevole conversazione di due tranquilli viaggiatori che si confidavano le loro esperienze: "Ma tu hai paura dell'aereo?" "Un po' sì, lo confesso". Mi interposi ancora ansimante per domandare: "Mai provato col taxi?"

Poi mi abbandonai con sollievo alla mia poltrona Alitalia e allacciai festante le cinture di sicurezza.

Il Verona proseguì con bella disinvoltura il suo campionato, giocato costantemente nelle prime posizioni, e si classificò infine al sesto posto, che non consentiva un nuovo accesso in Europa ma confermava l'ormai sicura presenza della squadra nel gruppo delle migliori. Per il secondo anno consecutivo, del resto, proprio i gialloblù avevano nel contempo conquistato il diritto a disputare le finali di Coppa Italia!

Loro grande rivale era nell'occasione la Roma, che aveva appena ceduto alla Juventus lo scettro di campione d'Italia e voleva comunque onorare la sua stagione con una vittoria di prestigio.

La gara di andata si disputò a fine giugno al Bentegodi in una serata caldissima e umida. Finì 1-1, con gol di Cerezo e Storgato.

Il ritorno era di scena all'Olimpico. Se la Coppa fosse andata alla Roma, si sarebbe liberato un posto in Coppa Uefa per l'Inter, che si era piazzata quarta in campionato. Del tutto incurante dei suoi lettori veronesi e delle loro legittime trepidazioni, "La Gazzetta dello Sport" presentò la finalissima titolando: "Milano in ansia".

Il Verona non giocò benissimo, un'autorete di Ferroni portò in vantaggio i giallorossi. Arbitrava il milanese Casarin, che all'inizio della ripresa espulse Iorio per futili motivi. La Roma vinse la Coppa Italia, e la "Gazzetta" poté festeggiare senza pudore con i suoi lettori più vicini di casa.

Ma quel titolo aveva significato, intanto, anche un'indiscutibile realtà: il Verona ormai faceva paura anche alle grandi.