La stagione 1982-83 vista da Roberto Puliero

(Tratto da "Alè, alè, alè, bum, bum" – Edizioni Perosino)

 

Era dai tempi del "favoloso" Gundersen (amletico fantasista del Verona 1957-58: subito un gol alla sua prima partita nel "vecio" Bentegodi, poi più nessuno per tutto il resto del campionato) e del mitico Emanuele Del Vecchio (che nello stesso torneo aveva segnato ben cinque reti in una sola partita!) che il Verona non aveva potuto schierare tra le sue file dei giocatori stranieri, da sempre i più solleciti nell'accendere la fantasia dei tifosi. La promozione in serie A consentiva ora di ingaggiarne due.

Reduci entrambi dai mondiali di Spagna inopinatamente conquistati dagli azzurri di Bearzot, arrivarono allora a farci sognare Vladislav Zmuda, gigantesco baluardo della nazionale polacca, e Josè Guimares Dirceu, trentenne brasilero giramondo che già aveva portato i suoi tocchi fantasiosi financo in Spagna e in Messico.

Il primo ebbe appena il tempo di fare un giretto in piazza Bra attorniato dai fotografi, di sgranare gli occhi buoni davanti all'Arena, e di aprire impercettibilmente le labbra per mormorare ai circostanti: "Tuto molto pièlo". Poi giocò la prima amichevole, e si fece male di brutto. L'infortunio, successivamente aggravato da periodiche ricadute e da una sfortuna degna di Fantozzi (un giorno, quando appariva ormai imminente il suo rientro, arrivò a ferirsi la testa saltellando negli spogliatoi e incornando uno stipite!), lo cancellò subito suo malgrado dalla storia gialloblù, costringendolo alla miseria di poche presenze in panchina.

Il secondo, proprietario del suo cartellino assai prima della così detta "era-Bosman", portò subito una carica di travolgente simpatia. In campo, era un brasiliano per molti versi atipico. Evitava accuratamente il dribbling, e correva senza sosta con i capelli al vento nelle vicinanze della palla. Una volta ricevuta, subito la smistava rigorosamente di prima con tocchi mirabili. Sapeva inoltre inventare lanci lunghissimi, e, quando capitava l'occasione, esplodeva superbi tiri da lontano: la sua battuta fiondava violentemente la palla verso l'obiettivo, nei pressi del quale essa pareva improvvisamente rallentare per poi scendere –diceva lui- "con un giro di samba".

Egli fu un insuperabile reclamizzatore di se stesso. In allenamento sorrideva sempre. Regolarmente accerchiato da drappelli di tifosi, a tutti regalava un festoso "ciao, amigo". Rispondeva con gentilezza a chiunque, e si faceva in quattro per accettare i mille inviti che da ogni parte gli venivano rivolti. Fece stampare migliaia di cartoline con la sua fotografia invariabilmente autografata "Dirceu / 10", e in pochi mesi non ci fu in Verona bar, ristorante, albergo, bettola o taverna che non avesse in bella mostra la foto di lui abbracciato al proprietario.

Dirceu faceva tutto ciò per una scelta meditata, ma anche, certamente, per reale cordialità. Me ne resi conto di persona il giorno in cui due maestre delle scuole materne di Buttapietra mi pregarono trepidanti di contattarlo per la premiazione di un torneo interno di calcio, una specie di Coppetta dei campioncini. Josè accettò immediatamente; poi mi cercò più volte in serata per scusarsi, perché era stato spostato l'allenamento e avrebbe tardato di mezzora. All'asilo di Buttapietra si trovò davanti duecento bambini vocianti con contorno di maestre in frenesia e mamme col vestito della festa. Avrebbe potuto dare una medaglietta ai dieci capisquadra, e già tutti ne sarebbero stati lieti. Invece mi pregò di prendergli in macchina lo scatolone delle foto, e volle salutare e baciare i bambini ad uno ad uno, a ciascuno regalando il suo autografo con dedica e non di rado informandosi d'un taglietto sul dito o di un brufolo al naso. Se ne andò dopo un'ora e mezza sommerso da cesti di frutta e bottiglioni avuti in dono, acclamato dalla gente in visibilio.

Bagnoli ne aveva inizialmente accolto l'arrivo con perplessità: Dirceu era stato ingaggiato solo negli ultimi giorni di mercato, ed egli aveva ormai puntato sulla conferma dell'ottimo Guidolin. Per far posto, al brasiliano, dovette poi in effetti sacrificargli anche Gibellini, riuscendo in ogni caso con la ben nota sagacia a mettere infine in campo un Verona memorabile, grazie anche all'eccellente campagna di rafforzamento nuovamente operata quell'anno dalla dirigenza.

L'acquisto più importante fu in realtà quello di Pierino Fanna. "Sarà lui - disse subito Bagnoli - il nostro vero straniero".

Pierino aveva ventiquattro anni e ancora un po' di capelli biondi: ma correva così forte che molti restavano indietro, e non furono più ritrovati. Le sue splendide doti non avevano trovato spazio adeguato nel sontuoso organico della Juventus, che aveva appena aggiunto Platini e Boniek ai neocampioni del mondo Rossi e Tardelli, al canuto Bettega e all'emergente Marocchino. Bagnoli gli diede subito fiducia totale, nuove entusiasmanti motivazioni, e soprattutto spalancò gli indispensabili spazi tattici davanti alla sua quasi fanciullesca voglia di correre, miracolosamente liberando il campione ch'era in lui e regalando al Verona uno dei giocatori più determinanti della sua storia.

A difendere e a correre sulla fascia opposta era stato ingaggiato Luciano Marangone, che aveva carattere estroverso e bizzarro e, talora, qualche atteggiamento di supponeva. I pettegoli in servizio permanente presero a favoleggiare sul Listone di sue memorabili imprese nelle discoteche, ma in campo era disciplinato e generoso, sempre sollecito nell'assistere i compagni e instancabile nelle percussioni laterali.

Erano inoltre arrivati Gigi Sacchetti, vivacissimo cursore, Luciano Spinosi, elegante stopper appena approdato alla sua seconda giovinezza, Mario Guidetti, detto "tortellino" per il caratteristico fisico con ripieno, che non gli impediva tuttavia di scagliare micidiali bordate, e Domenico Volpati.

Quest'ultimo, prelevato dal Brescia retrocesso in serie C, aveva già trentun anni e pareva ormai al termine della carriera. In realtà, egli aveva giocato quasi per hobby fino a soli tre anni prima, dedicandosi con maggiore puntiglio ai suoi studi di medicina. Ripescato nell'occasione in serie A, decise di accantonarli momentaneamente per mettere a disposizione del Verona un'efficienza fisica ancora eccellente e i tesori di una intelligenza tattica sopraffina.

Assistito e protetto da tanto stratega, Tricella maturò definitivamente a livelli di eccellenza assoluta, interpretando il ruolo di libero come nessun altro allora in Italia: quando si concludeva un'azione difensiva e la palla tornava al portiere gialloblù, proprio lui era il primo ad avviare la controffensiva smarcandosi lestamente nei pressi del centrocampo, ove si aggiungeva ai compagni del reparto ad impostare contro avversari improvvisamente in minoranza.

Oddi si trasformò in arcigno marcatore, Garella prese a volare come una libellula travestita da elefante. Di Gennaro si confermò gran direttore d'orchestra, e Nico Penzo assunse il ruolo di unica punta fissa, avviandosi alla soglia dei trent'anni a rivelare al grande calcio le sue superbe doti di cannoniere.

Nelle prime due giornate la squadra pagò pedaggio all'inesperienza, e alla sudditanza psicologica altrui nei confronti delle grandi: sconfitta fortunosamente dall’inter al debutto al Bentegodi, nella prima trasferta all'Olimpico fu condannata da un assurdo rigore a tempo scaduto.

Alla terza giornata arrivò a Verona la Juventus col suo carico roboante di campioni. I ragazzi in maglia gialloblù gettarono il cuore oltre l'ostacolo e due volte la palla in rete, in un tripudio di bandiere. Segnò per primo Fanna, sfuggendo imprendibile ai suoi vecchi compagni. Sul finire, Tricella, che tutto sapeva fare ottimamente tranne che goleare, trafisse imparabilmente il mitico Zoff con una mirabolante staffilata all'incrocio.

Fu l'inizio di un cammino sorprendente mente felice, che domenica dopo domenica lasciò stupefatti avversari e osservatori, che mai si sarebbero aspettati tanto da una neopromossa.

Alla settima giornata, dopo una sonante vittoria interna sul Catanzaro (3-1), il Verona si ritrovò primo in classifica! Dirceu festeggiò l'evento col suo primo gol italiano, atterrato festosa- mente nella rete avversaria come un missile imprendibile.

Poi andò in fuga la Roma di Liedholm e Falcao, Pruzzo e Bruno Conti. Il Verona, secondo in classifica al termine del girone d'andata, cercò vanamente l'aggancio nel confronto diretto al Bentegodi: ma i giallorossi riuscirono a conquistare 1'1-1 e a conservare il vantaggio.

La partita fu comunque bellissima, applaudita da un pubblico traboccante di entusiasmo: per la prima volta nella sua storia, il Verona era non casualmente lassù tra le vette del campionato, e i tifosi ne assaporavano lietamente l'arietta con l'orgoglio dei conquistatori.

 

Le mie radiocronache si ritrovarono ad accompagnare con trepidazione crescente le tappe di così coinvolgente salita.

Il periodo pionieristico intanto era praticamente finito: io avevo ottenuto il tesserino di giornalista, e questo mi consentì in molti stadi di entrare in tribuna stampa e trasmettere da là. La radio vi faceva installare una linea telefonica provvisoria, o la trovava già predisposta da emittenti amiche cui a Verona ricambiavamo la cortesia. lo potevo sostituire il telefono con un compressore appositamente fatto costruire da Gaetano Battocchio, tecnico di comprovata bravura e serietà cui era buffamente toccato in sorte proprio il cognome di Arlecchino. Vi si potevano applicare microfono e cuffie, e per la prima volta potevo comunicare direttamente con lo studio, ricevendone indicazioni e aggiornamenti. Non esisteva ancora in realtà per le radio una regolamentazione precisa. In diverse città erano intervenuti accordi di vario tipo fra i presidenti e le singole emittenti locali: da quelli dipendeva il nostro ingresso o meno nelle tribune stampa. In genere eravamo in qualche modo sopportati, poche volte accettati di buon grado o volutamente ignorati. Qualche società non ci voleva proprio, e bisognava allora ricorrere agli stratagemmi che di volta in volta ci suggeriva il nostro passato di pionieri.

Non è da credere peraltro che l'accesso alle tribune stampa comporti necessariamente una patente di professionalità. Chi si trovi a sentire in tivù giornalisti d'ogni risma pontificare seriosamente con sicumera su moduli di gioco, scelte tattiche, percussioni e ripartenze, sarebbe portato a credere che costoro assistano alla partita in religioso silenzio e con puntigliosa attenzione. Vedere la partita da una tribuna stampa è in realtà come vederla dall'interno di un bar molto chiassoso affollato di vecchi amici buontemponi, critici saccenti e soprattutto nugoli di ultras travestiti da intellettuali.

A Catanzaro, dove feci il mio debutto in questa singolare società, mi ritrovai fin dall'inizio immerso in un clima festaiolo: giravano pacche sulle spalle, tazzine di caffè e rumorose risate; poi, durante la partita, incitamenti ai beniamini, vigorosi insulti all'arbitro e agli avversari esattamente come in ogni altro angolo dello stadio.

Il caos era saltuariamente sovrastato dal vocione stentoreo d'una sorta di capopopolo ciccione, che imponeva a tutti uniformità di descrizione.

"Ahò, boni! Chi l'ha fatto sto tiro?" Varie voci si levavano a rispondere: "Bivi", "Bivi", "Braglia", "Bivi".

"Allora scriviamo Bivi. Tutti, eh? E la palla chi gliel'ha data?" "Braglia!" "Bacchin!" "Musella!" "Braglia!"

"Facciamo Braglia! Minuto?"

E tutti a turno, forte, pur senza i fagioli della tombola: "'lì-entaduesimo!" "'lì-entacinque!" "'lì-entatré!" "Ventisette!"

"Noooo!" generale, "Trentaquattro!"

'Trentaquattro! Tutti d'accordo?" "Sììììì!"

Quando dalla nostra panchina si alzò per riscaldarsi Ezio Sella, punta di riserva, il capopopolo, del tutto incurante del fatto che io stessi lavorando, venne bruscamente a interrompere il mio dire puntandomi addosso il ditone: "Tu sei di Verona, vero? Chi è quello lì?"

- Sella.

- Fa il terzino, il centrocampista, che fa?

- La punta.

- E che fa, gioca con due punte allora? O toglie Fanna?

- Vedremo.

- Ragazzi, un momento di attenzioneee! Il piccoletto è una puntaaa!

In quell'occasione il Verona perse rocambolescamente per 2-1 e, al gol decisivo di Mariani a cinque minuti dal termine, furono molti gli autorevoli "colleghi" che si voltarono all'unisono verso di me sbattendo la mano sinistra sulla piega dell'avambraccio, uniti tutti nell'italico grido: Tièèèèè!"

Non per tutti, ma per molti giornalisti della carta stampata noi eravamo in effetti solo degli abusivi scocciatori, entrati di soppiatto a godere dei benefici della casta. Ci guardavano con sussiego o con fastidio, e citandoci nei loro articoli ci definivano invariabilmente "i ragazzini delle private": questo in realtà mi è toccato leggere per anni, con la mia laurea in tasca, nelle prose malferme di cronisti sgrammaticati. E nulla mai avrebbe fatto anche negli anni successivi l'Ordine dei giornalisti per salvaguardare il nostro lavoro, salvo il pregarci di aderire a qualche sciopero quando fosse utile alla categoria il considerarci colleghi.

Il privilegio di raccontare da così autorevoli scranni era del resto ancora occasionale. Qualche società ce ne proibiva rigorosamente l'accesso, e tra queste si segnalava con puntuale protervia il Pisa di Romeo Anconetani.

Anche quell'anno ebbi la soddisfazione di aggirare abilmente i suoi sgherri, tornando sul grazioso balcone fiorito dove ancora una volta il mio abituale ospite gentilmente mi sistemò prima di dedicarsi ad accogliere, fra i parenti, le tre vecchiette dell'anno prima con il loro solito sacchetto di paste, che certo non erano le stesse perché le intravedevo dai vetri più fragranti e gustose che mai.

Non ci fu il tempo tuttavia di versare lacrime sui bignè perduti: il Verona giocò una sontuosa partita, conquistando alla fine una delle sue più preziose vittorie in trasferta. Lancio telecomandato di Dirceu, stoccata vincente di Penzo: "Reteeeee", rete rete rete alé bum bum. I tifosi gialloblù erano assiepati proprio nella curva sottostante la mia postazione. Qualcuno mi aveva riconosciuto e, nel momento dell'esultanza, tutti volsero lo sguardo verso l'alto sventolando le bandiere e amplificando festosamente il grido di chi da lassù andava cantando alla Vittoria. Potenza dei balconi.

Un altro poggiolo dovetti cercare a Genova, dove pure ci era proibito l'ingresso allo stadio. Ne trovammo uno segnalatoci dalla radio di casa. Ma la proverbiale parsimonia dei genovesi si confermò inamovibile: bisognava pagare.

Mi presentai al padrone di casa con le centocinquantamila lire pattuite e mi sistemai sul balcone un'oretta prima della partita. Era un po' decentrato: si vedeva da un lato lo spelacchiato cortile interno del carcere di Marassi, dove ventidue ragazzi sfogavano in una accesissima partita la loro vibrante voglia di correre; dall'altra ventidue loro coetanei, circondati da una folla in festa, corricchiavano in attesa del cimento su un prato verdissimo.

A dieci minuti dall'inizio della partita, il balcone d'incanto fu inaspettatamente invaso da una trentina di tifosi, a ciascuno dei quali il padrone di casa indicava il suo posto - rigorosamente in piedi, formato sardina - dopo aver intascato il prezzo d'ingresso. Non si era accontentato del mio contributo: faceva così ogni domenica, ed io raccontai la partita da una postazione divenuta strettissima, scansando a fatica gomiti e braccia dei paganti miei vicini.

Fu proprio in quella partita, peraltro, dopo un girone di ritorno giocato sempre da protagonista, che il Verona guadagnò con certezza l'ammissione di diritto alla successiva Coppa Uefa. Era l'ultima di campionato, e una doppietta di Nico Penzo rimontò alla grande l'iniziale vantaggio doriano, conquistando al Verona il quarto posto in classifica. Era un traguardo storico, il più alto mai raggiunto dalla società in oltre settant'anni di vita.

Ma la stagione aveva ancora in serbo una straordinaria appendice di emozioni e di conquiste. La squadra di Bagnoli si era qualificata per la fase finale di Coppa Italia, in programma quell'anno tra fine maggio e giugno.

Nella prima partita dei quarti i gialloblù pareggiarono 2-2 col Milan al Bentegodi. Il ritorno di San Siro fu memorabile: a dodici minuti dalla fine, il Milan si trovò in vantaggio per 3-2 e la qualificazione dei rossoneri pareva ormai certa. I nostri non si diedero per vinti e si riversarono nell'area avversaria: al novantesimo una incredibile prodezza di Penzo portò le squadre sul 3-3, mandando in semifinale i gialloblù per il meccanismo dei gol in trasferta.

Il goleador fu sotterrato dall'abbraccio dei compagni riuniti in un mucchio gioioso. L'urlo "Reteeeee" fu interminabile, e lo festeggiarono lungamente anche migliaia di tifosi e di semplici cittadini radunati sul Liston.

Radio Adige aveva infatti inaugurato per l'occasione una singolare iniziativa: aveva piazzato due altoparlanti sul suo balcone affacciato in piazza Bra e pavesato di gialloblù, irradiando la radiocronaca a beneficio dei passanti. Nacque allora una consuetudine successivamente coltivata da molti cittadini, che in occasione delle più epiche partite del Verona presero a radunarsi nel cuore della città per vivere insieme le vicende della squadra.

Anche le semifinali misero in difficoltà i sofferenti di cuore: sconfitto dapprima in casa dal Torino (0-1), il Verona andò a vincere per 2-1 la gara di ritorno al Comunale granata. A contendere la Coppa Italia ai gialloblù, era rimasta solo la Juventus! La prima finale fu giocata al Bentegodi, e i bianconeri furono travolti da un Verona scintillante, che andò a segno nel primo 1 tempo con Penzo, nella ripresa con Volpati. A pochi istanti dalla fine, Marangon ebbe la possibilità di togliere alla Juve ogni speranza, ma una sua prepotente staffilata dal limite andò a stamparsi sul palo!

Per la finale di ritorno, migliaia di tifosi veronesi invasero Torino. Molti si erano già cuciti rudimentalmente, su cappellini e magliette, la coccarda tricolore dei vincitori. Piazza Bra era gremita, con occhi e orecchie all'insù, pregustando la festa.

Paolo Rossi segnò per i bianconeri dopo otto minuti. La Juventus attaccò a testa bassa per tutta la partita. Pur con qualche affanno, il Verona pareva resistere. A nove minuti dal termine, Michel Platini, che dopo un intero girone d'andata in incognito aveva ormai stabilmente vestito i panni del campione, agguantò il 2-0. Ci furono i tempi supplementari, con nuove tensioni e sofferenze. All'ultimo istante dell'ultimo tempo, da una mischia nell'area gialloblù sbucò ancora lui, Platini, a provocarci un risveglio brusco, doloroso e stordente.

Avevamo dunque sognato troppo? Chissà. Ma lassù, a lottare alla pari con le grandi del calcio, il nostro umile Verona era! arrivato davvero.